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Convegno di studi
Ante et post Lunam. I 
Splendore e ricchezza dei marmi apuani - l'evo antico

Marina di Carrara, 6 giugno 2003

 


documenti consultabili:

sintesi interventi 
atti del convegno
fotocronaca



 


Il Convegno di studi "Ante et post Lunam: splendore e ricchezza dei marmi apuani - I - L'evo antico" -  tenutosi all'interno della XXIV edizione della manifestazione fieristica "Carraramarmotec" -  ha rappresentato un primo importante contributo alla conoscenza del patrimonio archeominerario delle Alpi Apuane, con l'obiettivo di contribuire all'istituzione del "Parco archeologico delle Alpi Apuane".
 


Presentazione del primo Convegno

Luna sorse nel 177 a.C. come colonia agraria, mentre erano in corso, cruente ed incessanti, le guerre contro i liguri. Cresce e prospera per tutto il I sec. a.C., quando si aprono le prime cave romane sui rilievi marmorei delle Apuane prossimi alla città, dove diversi secoli più tardi si formeranno Carrara e i suoi borghi. 
Nel periodo imperiale, l’impresa estrattiva si amplia e si diffonde per le valli tributarie del Carrione.
Luna gode della benevolenza dei principi di Roma, dopo che l’amministrazione imperiale, in pieno periodo giulio-claudio, prende la decisione di confiscare le cave.
Da quel momento, il nome della città si lega indissolubilmente a quello del marmo niveo delle Apuane, che l’aggettivo ‘lunense’ farà conoscere a tutto il mondo antico. Nell’Urbe, in Italia e in molte altre province dell’impero, i marmi di
Luna trovano impieghi vastissimi, tanto da rivaleggiare con i ‘bianchi’ della tradizione greca. L’impresa estrattiva lunense accompagna così la parabola ascendente e poi declinante di Roma fino al V sec. d.C. 
Nell’alto Medioevo, tutto s’acquieta e s’interrompe, per riprendere negli stessi luoghi (ed oltre) appena dopo il Mille. Intermittente nei secoli successivi, tra rovinosi abbandoni ed istantanee riprese, la storia estrattiva delle Apuane reca evidente l’eredità della città –
solis soror – con quel fluire impalpabile di una tradizione che l’espressione post Lunam sintetizza a pieno.
Oggi, l’Era lunense non ha più soltanto un “dopo” di ‘splendore e ricchezza’  lapidea, che ha conosciuto i fasti imperiali, la purezza rinascimentale e l’opulenza barocca. Quelli che, fino a ieri, erano poco più che indizi di un “prima”, cominciano a delinearsi nettamente e a definire un
ante Lunam inaspettato e, per molti versi, misterioso. Pregio di questo convegno è proprio nel puntare finalmente dritto alla comprensione del rapporto, niente affatto rozzo e primordiale, che le genti italiche hanno stabilito con i marmi apuani.
Noi scontiamo un ritardo nelle conoscenze di tecnica e produzione lapidea preromana, anche perché pregiudizi e luoghi comuni hanno forse impedito di vedere e capire. Non va dimenticato che, fino a qualche tempo fa, la storiografia ufficiale descriveva ancora la civiltà etrusca come inadatta ed incapace di fronte alla cultura del marmo.

Antonio Bartelletti

Direttore Parco Regionale delle Alpi Apuane
 



Presentazione del volume

Ante et post Lunam. I 
Splendore e ricchezza dei marmi apuani - l'evo antico

Marina di Carrara, 28 maggio 2004
 


Ad un anno esatto dal suo svolgimento, nella stessa sede e all’interno della medesima manifestazione (la XXV edizione della CarraraMarmotec di Marina di Carrara) sono stati presentati gli Atti del primo convegno di studi organizzato dal Parco Regionale delle Alpi Apuane, per fare il punto sulle nuove prospettive di ricerca riguardo ai materiali, alle tecniche di lavorazione e agli impieghi architettonici ed artistici dei lapidei dell’area apuana (e dintorni) nell’Antichità, sia in età pre-romana che romana.
Gli Atti sono stati raccolti in un volume monografico della rivista “Acta apuane” (II, 2003) e dati alle stampe grazie anche al contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca.
L’obiettivo primario di questo convegno, come ha ricordato nell’introduzione il prof. Pierlorenzo Secchiari (Presidente del Comitato scientifico dell’Ente Parco), è sostenere studi di approfondimento che intendono spingersi oltre le attuali conoscenze – frutto di importanti acquisizioni, ma anche di vedute parziali – per uscire dall’impostazione monoculturale delle cave romane di Carrara come unica testimonianza, spazio-temporale, di utilizzo effettivo di marmo apuano prima del V sec. d.C.
Ad ogni modo, anche nel merito delle cave romane e soprattutto del significato epigrafico di marchi e sigle di cava, Angeli Bertinelli (Università di Genova), Paribeni  (Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana) e Segenni (Università di Milano) hanno fatto intendere come molto ci sia ancora da indagare e soprattutto da intendere sull’organizzazione, sui rapporti di committenza e di produzione, sui trasporti e sui commerci, soprattutto durante l’età imperiale, a meno che non si voglia oggi pedissequamente riproporre la stessa lezione, meritoria ma datata, del Bruzza e del Dubois, a circa un secolo dai loro contributi.
Ancora all’età romana, va iscritto l’articolo di Antonio Bartelletti (Parco Regionale delle Alpi Apuane) riguardo ad un eccezionale reperto di cava, probabilmente del I sec. a.C., sul quale si evidenziano, per la prima volta nel ‘marmo lunense’, le tracce della segagione manuale, insieme ad un numero mai così alto di notae lapicidinarum, la cui interpretazione viene qui tentata in parallelo alla lettura delle tecniche di lavorazione, denotando competenze e conoscenze inaspettate per il mondo produttivo romano
Particolarmente stimolanti sono poi gli articoli sull’attività estrattiva in periodo preromano. In particolare, Cantisani e Fratini (C.N.R.-I.C.V.B.C. Firenze) insieme a Pandolfi e Molli (Università di Pisa) hanno confermato, a seguito d’indagini petrografiche in sezione ultrasottile, come i grandi cippi ‘a clava’ del VI-V sec. a.C. (ritrovati nella pianura versiliese e da associare a sepolture di cultura etrusca) provengano tutti, con alta probabilità, dallo stesso luogo estrattivo. In effetti,, le loro caratteristiche microstrutturali indirizzano verso le cave di Ceragiola, località posta tra Seravezza e Pietrasanta, in una zona di estrema vicinanza degli affioramenti marmiferi alla fascia costiera apuo-versiliese. L’importanza di questa nuova acquisizione sta nel fatto che il comune luogo di provenienza di un numero così elevato di reperti escluda un reperimento occasionale, magari da massi rinvenuti lungo il greto dei fiumi, spingendo piuttosto ad una prima attività di cava, oggi non più visibile a causa delle enormi trasformazioni conseguenti a secoli di successiva impresa estrattiva.
Con questo risultato non si è inteso strappare a Carrara il primato dell’utilizzo più antico dei marmi apuani. In realtà, un’altra interessante ed innovativa relazione di Bruschi e Criscuolo (Comune di Carrara) insieme a Zanchetta (Università di Pisa), ha preso in esame alcuni ravaneti storici dei bacini di Carrara (Fossa della Carbonera, Strinato, Scalocchiella e Gioia) conducendo un primo studio stratigrafico sui detriti di lavorazione delle cave di marmo. Grazie alla datazione al C-14 di paleosuoli, con livelli ricchi di carboni primari, che si rinvengono all’interno dei ravaneti stessi, hanno dimostrato sia la ripresa estrattiva medievale delle cave di Carrara (XIII-XIV sec.), dopo l’abbandono conseguente alla caduta di Roma, sia l’esistenza di scaglie di lavorazione che precedono la romanizzazione del territorio e databili, nei due diversi livelli ritrovati, al IV-III e al VI-V sec. a.C.
Entrambe le relazioni sul periodo preromano – introdotte da Emanuela Paribeni (Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana) nel contesto della presenza etrusca a nord dell’Arno – sono venute a sostenere l’ipotesi storica e non la “leggenda” di una cultura d’ambito etrusco che già impiegava i marmi, sia a Carrara sia in Versilia, trovando ulteriore sostegno archeologico dai reperti d’età arcaica ed ellenistica recentemente rinvenuti presso la Rocca di Corvaia (Seravezza), in una località prossima ai siti estrattivi indiziati, con un insediamento spiegabile con la protezione e controllo delle attività etrusche di cava .
Inoltre, il marmo oggi di Carrara – che aveva trovato nello sviluppo economico-commerciale della città di Luni la consacrazione in età classica e la denominazione di ‘lunense’ – ha comunque avuto un altro lapideo bianco di precedente impiego e/o di ‘sostituzione’ successiva, che giungeva dalla zona di Punta Bianca, oltre Bocca di Magra. Alcuni importanti reperti di Luni sono stati presi in considerazione da Marco Franzini (Università di Pisa), che vi ha riconosciuto questo litotipo come materiale costituente, il cui afflusso nella stessa città era favorito dalla vicinanza e dal trasporto lungo vie d’acqua.
Come già accennato, tra le attenzioni poste verso i lapidei apuane dal convegno e dagli Atti pubblicati, non vi sono soltanto quelle rivolte ai marmi bianchi, ai venati e ai bardigli della tradizione carrarese, poiché alcuni articoli hanno preso in considerazione l’utilizzo dei colorati in età romana. In particolare, Amorfini e Bartelletti (Ente Parco Regionale Alpi Apuane) presentano qui i risultati di nuove analisi sulle caratteristiche mesoscopiche e petrografiche di alcuni importanti reperti (blocchi riquadrati, colonne, ecc.) ritrovati a Roma, che porterebbero ad escludere una provenienza apuana del litotipo conosciuto come ‘breccia bruna del Testaccio’ (dal nome del quartiere romano dove fu rinvenuto un deposito ingente di tale materiale) e probabilmente anche della ‘breccia cenerina’, se alla precedente associabile. Al contrario, i dati finora raccolti sulla ‘breccia di Seravezza’ (o ‘breccia medicea’) risultano compatibili con l’ipotesi di una possibile estrazione, in età romana, di questo splendido marmo policromo affiorante in Alta Versilia e nella Valle del Frigido. A seguire, l’articolo di Giovanna Tedeschi Grisanti (Università di Pisa) che ha illustrato il numero e la varietà degli altri marmi colorati toscani, mettendo in risalto i problemi di identificazione e di reimpiego. In questo excursus sono confluiti tutti i lapidei di interesse ornamentale, utilmente cavati dalla civiltà romana, comprendendovi i cipollini, il giallo di Siena e perfino i graniti dell’Elba e del Giglio.
Le conclusioni degli Atti comprendono una compiuta relazione del prof. Patrizio Pensabene (Università di Roma “La Sapienza”) che ha trattato la diffusione del ‘marmo lunense’ nelle province occidentali dell’impero romano, con la sottolineatura della crescente importanza del litotipo come “marmo di sostituzione” dei più antichi e rinomati ‘bianchi’ dell’area greca. Segue una lunga e dettagliata bibliografia sui marmi antichi, che potrà servire agli studiosi ed appassionati per approfondire le proprie ricerche e letture.